Torino (Ansa – Terra e Gusto) – Ricostruire il patto con la natura rotto negli ultimi decenni, con il dominio delle monocolture su scala industriale e la concentrazione di poche sementi in mano alle multinazionali. E la strada per rigenerare la terra indicata nel web talk ‘Dal seme alla tavola’ organizzato da Slow Food, in collaborazione con la Fondazione Seminare il Futuro, nell’ambito di Terra Madre Salone del Gusto. Ma è anche il modo per rispettare quello che la strategia europea del Farm to fork chiede, con l’obiettivo di avere il 25% di coltivazioni biologiche entro il 2030. “Ci sono sempre più piante apirene (senza semi. ndr) – ha detto Stefano Mancuso, botanico dell’Università di Firenze – e questa è una delle follie dei nostri tempi: non permettere alle piante di riprodursi da sole e lasciare che poche aziende possano governare il mercato delle sementi”.
A produrre il 60% dei semi venduti in tutto il mondo sono solo quattro aziende, le stesse che creano pesticidi e concimi per l’agricoltura industrializzata. “Un modello – sostiene Slow Food, citando le ricerche della Fao – che ha dimostrato di avere effetti negativi sulla biodiversità agricola ma anche su ambiente e salute umana. Parte delle sementi utilizzate non è ‘riproducibile’ oppure l’autoriproduzione a cura dell’agricoltore non risulta interessante perché instabile e poco produttiva”.
Ma l’agricoltura biologica “necessita di varietà ‘locali’, legate cioè alle caratteristiche delle aree di produzione, oppure selezionate in modo specifico per una pratica agroecologica, in grado di svilupparsi pienamente in campi dove la chimica di sintesi non viene impiegata”. Il bio copre oggi l’8% delle terre agricole europee (in Italia 15,8%): per moltiplicare i campi bio così come indica il Green Deal. Il punto di partenza sono i “semi adatti, che siano in grado di produrre piante con radici ramificate e profonde, – ha spiegato Fausto Jori,. amministrare delegato di NaturaSì – in grado di ‘andarsi a cercare’ il nutrimento che non viene fornito in forma immediata dai fertilizzanti chimici di sintesi. Semi che, ad esempio, diano vita a piante di frumento alte, in grado di competere con le erbe infestanti. O che siano in grado di far fronte, anche per diversità e varietà, ai cambiamenti climatici”.
La ricerca per il miglioramento genetico biologico richiede “tempi lunghi – ha detto Federica Bigongiali, direttrice della Fondazione Seminare il Futuro – fino a 10-15 anni e i fondi pubblici sono scarsi, ma tutte le nostre varietà di semi sono libere di essere riprodotte e utilizzate da altri genetisti”. Al web talk ha partecipato Maurizio Martina, vice direttore generale della Fao: “Nella transizione ecologica – ha detto – la parola chiave deve essere rigenerare. Ci vuole un cambio di passo, non si può affrontare la situazione emergenziale con le logiche, mirate a contenere gli effetti, degli anni ’90 o dell’inizio del nuovo millennio. E le questioni dell’agricoltura e dell’alimentazione sono due nodi essenziali”.